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TINA MERLIN. CHE IL CONTRARIO DI OBLIO NON SIA MEMORIA, MA GIUSTIZIA

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Questa è la mia terra

Perfino mia madre ha intuito, se non capito appieno,

il valore della sua storia personale,

e che ogni storia individuale non è sola

ma in compagnia di tante altre che formano il passato di una comunità

e in qualche modo ne determinano il futuro.

Tina Merlin, La casa sulla Marteniga

 

Non va comunque taciuto che Tina aveva un carattere rigido

e difficile e che la poca propensione alla mediazione

comportò rapporti non facili con i dirigenti vicentini.

Si racconta di uno scherzo che le fu fatto da due dirigenti locali,

a cui lei tolse il saluto per qualche mese. […]

Era una donna forte, combattiva;

si potrebbe definire giornalista e compagna “scomoda”.

Lalla Trupia, «Care ragazze… adesso tocca a voi» da Tina Merlin. Partigiana, giornalista, scrittrice, a cura di Maria Teresa Sega.

 

Ho letto La Casa sulla Marteniga nel mese di agosto di qualche anno fa, e il ricordo di quella lettura è legato al caldo, alla temperatura esterna che mal si accordava a quella del libro, a quel gelido fronte russo dove è impegnato a combattere Remo Merlin, uno dei fratelli di Tina. Ricordo il gelo che improvvisamente mi avvolse, malgrado la temperatura, alla svolta tragica del libro, quando un’altra perdita, l’ennesima e più dolorosa, segna la fine della guerra e di un periodo della vita di Tina.

La casa sulla Marteniga è un’autobiografia, anomala in quanto si occupa solamente degli anni della formazione, il racconto di una donna adulta che riscrive la propria giovinezza, e lo fa attraverso il dialogo con un’altra donna, la madre, che di quegli anni è presenza oscura e luminosa al tempo stesso, custode di troppo dolore e riferimento e motivazione per un riscatto possibile e doveroso, che Tina sembra volerle rendere e per il quale tenacemente combatte.

mia madre ha un carattere fortemente apprensivo. Ancora adesso, da anziana, è sempre in attesa che le capitino nuove disgrazie e predispone il suo animo, con anticipo, a sopportarle. Forse per questo le sono accadute davvero negli anni, piccole e grandi: nella mia vita conobbi poche persone come lei perdenti. Ormai sembra non avere più alcun interesse alla vita. -Sono sfinita- ripete di continuo- Sono stanca, è ora che vada a raggiungere i miei morti. Che sono, naturalmente, i suoi figli. […] Mai s’è concessa qualche attimo d’allegria nella sua vita, come se fosse peccato, per i poveri, dimostrare qualche volta d’essere felici.

Si tratta del dialogo tra due donne, che percorrono il piccolo appezzamento dove la madre di Tina ha consumato i suoi giorni e al quale sembra avere affidato tutti i propri dolori. Sono continui i riferimenti alla terra e alla Marteniga, il fiume che ne segna il confine, che se la sta mangiando, quasi che l’inesorabile avanzare delle acque sia metafora della memoria anziana che se ne va, portandosi via anche il ricordo dei figli perduti: quattro, alla fine della guerra. Mentre le due camminano al ritmo lento di passi stentati, inciampano negli eventi di due vite tanto piene, ma non cadono, e proseguono. Tina sa di ferire la madre, nel ravvivare continuamente la memoria dei suoi lutti:

Tu,- le chiedo polemicamente – volevi viverla così la tua vita? Basta questa piccola, maligna frase a confonderla, a renderla titubante, fermarla, per quel giorno, dal pronunziare sentenze assolute. […] Del mio lavoro, degli impegni sociali, del mio matrimonio cerco di parlare con mia madre intercalando i problemi della mia vita con i ricordi della sua. Sì, la strumentalizzo, volendo testardamente che lei comprenda il mio agire e le mie motivazioni a un impegno che vuole riscattare anche la sua vita.

La necessità di dare un ordine agli eventi, di ricondurli all’interno di un quadro, politico e storico, è la priorità di Tina. Il fascismo, la guerra, la morte di Remo sul fronte russo, la scelta di Toni, tra i primi organizzatori della resistenza locale, non sono fatti tra loro disgiunti, «le scene della storia umana, come le spire multiple di un assassinio interminabile», ma tasselli tra loro legati di uno stesso insieme di cui Tina e la madre fanno parte. E che può essere spiegato, a parole. Tina insiste molto sulla propria acquisita capacità di parola, di comprensione del reale e di conferimento di un senso, che sente il dovere di trasmettere alla madre, affinché capisca “che è stata ingannata. Che la politica le ha tolto i suoi figli, disponendo delle loro vite e della loro esistenza. Che la Patria è un inganno”. Tina comprende l’immane dolore della madre, l’assuefazione alla perdita, il subdolo convincimento che la sofferenza sia parte inestirpabile della propria vita, ma non lo accetta. Riconosce però che aver perso dei fratelli e dei compagni non è la stessa cosa: la morte di un figlio, ora che ne ha uno piccolo lo intuisce, non è commisurabile, è su un’altra scala. È un pensiero che «lacera le viscere».

Perché insisto ostinatamente con mia madre, quasi facendole violenza, nel ricordarle i dolori della sua vita? Forse per riscattarmi del passato, dei giorni luttuosi in cui ognuna di noi due aveva vissuto per conto proprio la morte. Entrambe con proprie giustificazioni ed egoismi. Lei sentendosi colpita dal destino come nessun’altra donna ed escludendo le figlie dal suo tormento, tranne per riversare su di noi le sue sofferenze facendoci sentire in colpa d’essere vive al posto dei fratelli. Allora avevo pensato che il mio dolore valesse il suo, anche se non ne parlavo, cercando piuttosto di farmi una ragione degli avvenimenti. […] Non sopporto l’idea che mia madre pensi d’aver speso inutilmente una vita. La sua vita contiene anche la mia e quella dei miei fratelli. Se non era per la guerra sarebbero qui e lei avrebbe altri nipoti. A ferragosto cucinerebbe in umido il gallo del pollaio e ci troveremmo tutti insieme a pranzo, sotto la pergola dell’orto, attorno a una grande polenta. La sua vita avrebbe contato, non direbbe d’aver lavorato per niente.

Nel libro ai capitoli narrativi si alternano, anche tipograficamente, quelli di riflessione, i frammenti di dialogo con la madre. Scrive Mario Rigoni Stern, a cui Tina Merlin aveva affidato il manoscritto e che ne curò la pubblicazione postuma (Tina muore il 22 dicembre 1991 dopo un anno di malattia, il libro esce nel 1993) che nel “lungo racconto di Tina, non c’è una parola di troppo, abbiamo una testimonianza che diventa poesia ma è anche un racconto lievitato e che cresce come la pasta del pane dentro il forno”. È la storia dell’esperienza di una ragazza che diventa giovane donna, attraverso la partecipazione alla lotta partigiana, e i due piani, quello della fine di un’adolescenza e della guerra di Liberazione si mescolano, ed è con imbarazzo che ci si accorge dei sentimenti, che pur si fanno largo nella crudeltà di quei mesi, in cui non c’è un attimo di respiro. Emblematico è, in questo senso, il racconto dell’incontro con il fratello Toni, avvenuto poche ore prima della sua scomparsa, nell’ultima tragica azione militare, terminata male:

Tornando dal comando di Brigata l’incontrai, un giorno, sullo stradone per Belluno. Era verso il tramonto, i raggi del sole vibravano ancora nell’aria tiepida e lo investivano in viso. Mi guardò con grande tenerezza, socchiudendo gli occhi, dal sole: – Sei stata brava, -disse- quando sarà finita ce la racconteremo. Salutami la mamma-. Mi venne una gran voglia di abbracciarlo e anche a lui, mi sembrò. Ma non eravamo mai stati abituati a esternare in quel modo i nostri sentimenti. Ci lasciammo con un sorriso di complicità totale, pedalando ognuno in senso contrario. Ero molto felice. “Ho un bellissimo fratello- pensai- che ormai mi stima grande. Per tutta la vita ci racconteremo di questa guerra fatta insieme”.

È nella misura, nel peso dato alle parole e nella loro semplicità, la cifra della bellezza di questo scritto. Stupisce, se lo si confronta con gli scritti precedenti (un’inchiesta sulle ceramiche di Nove e sugli operai del tessile a Valdagno, ma lo stesso Sulla pelle viva, dedicato ad Erto e al Vajont), quanto di personale ed intimo vi sia nel racconto di una donna che fu sempre militante, nel senso più nobile del termine. Tina Merlin sceglie «l’Unità» e il Partito Comunista e da esso mai si discosta, malgrado le numerose amarezze che le derivano dall’essere donna di provincia poco disposta al compromesso. In una raccolta di ritratti che amici e conoscenti le dedicano, la si ricorda come una donna forte, dura, «selvatica», per niente incline alla mediazione e alla medietà, estremamente seria, quasi a rinnovare perennemente la promessa fatta a se stessa e ai morti, e in particolare a quel fratello Toni, il «ragazzo libero» le cui parole sono un monito costante: «il tuo giudice è la tua coscienza». Non c’è tempo per non essere seri, con una così grande responsabilità. Immaginare questa donna, e paragonarla alla ragazzina della Marteniga, è quanto più colpisce il lettore. Lo dice Cesco Chinello, amico di Tina e compagno di militanza nel partito, nel ricordo che fa degli ultimi burrascosi anni della loro amicizia: “Abbiamo baruffato […]. Ci siamo lasciati veramente male. Ma poi – tre anni dopo – ho ritrovato Tina in La casa sulla Marteniga e mi sono totalmente rappacificato: bellissimo libro che dà il senso di una vita e di una militanza. L’autentica Tina Merlin, quella che io ho sempre conosciuto”.

Perchè La casa sulla Marteniga è un libro profondamente intimo e minuto, che rende attraverso il particolare la misura della «grande cosa: la Resistenza». Vi si lascia spazio a episodi minori, ed è spesso agli oggetti, in particolare ai vestiti, che viene attribuita funzione narrante, come se fossero le cose, nel loro permanere, a poter esprimere quanto a parole non si riesce a dire. L’umiliazione di essere povera e fare la serva passa perciò attraverso il grembiule e la crestina da governante che la padrona vuole far indossare mentre si va a passeggio, per mostrare di avere una bambinaia all’inglese e non una ragazzina di tredici anni che accudisce tre bambini appena più giovani di lei. Il fratello Toni, morto l’ultima notte di combattimento, lo si riconosce cadavere per una manica blu che spunta da sotto il lenzuolo bianco: la maglietta pulita portata il giorno prima, e i lutti della madre anziana sono i vestiti di tutti i suoi figli, stesi ordinatamente al sole, vicino alla Marteniga, perché prendano aria.

Così, tramite la narrazione del dettaglio reale attraverso cui si esprime la soggettività, La casa sulla Marteniga chiude il percorso iniziato con Menica e le altre. Racconti partigiani. Sono sette racconti per una manciata di pagine, i cui «fatti narrati anche se hanno preso lo spunto da cose veramente accadute nella mia provincia, e in parte vissute da me stessa, rispecchiano solo alcuni aspetti di vita quotidiana, che non sono i più tragici o i più gloriosi». Si tratta, spesso, di episodi che poi si riconoscono in forma non romanzata all’interno de La casa sulla Marteniga.

Le piccole cose a cui il passo si riferisce sono momenti, a volte molto crudi altre lievi, che anticipano tra l’altro i percorsi di indagine più recenti dell’analisi storiografica sul secondo conflitto mondiale, dando valore e dignità di racconto a tutti quei comportamenti che si inseriscono nella categoria di «resistenza civile». Accade così che, pur senza narrare esplicitamente la violenza nei suoi episodi più ecltanti, Tina Merlin riesca a restituire la dimensione della guerra nella sua accezione di quotidianità, una guerra di resistenza che è resistenza alla guerra, in cui, come scrive Adriana Lotto nella sua introduzione, «il sangue versato era davvero sangue, i corpi martoriati fatti di carne ed ossa e palpabili le paure, vere le sofferenze; perfino i sogni avevano una loro concretezza, piegati com’erano al quotidiano».

Ed è nella dimensione quotidiana che, nell’opinione di chi scrive, Merlin raggiunge i vertici della propria scrittura. Nel resituire le ansie, le paure, ma anche i sogni e le speranze, di quelle che come lei erano poco più che bambine. È lo spazio del desiderio, del corpo, della speranza di futuro, della voglia di vita, che riesce a farsi largo tra le pieghe dell’immane tragedia.

È il caso del racconto Calze e scarponi, in cui due giovani staffette (Tina e l’amica Wilma) si recano per la prima volta a Venezia per ritirare del materiale:

Era la prima volta che vi andavano, a Venezia, e una, addirittura, non aveva mai visto il mare. Di animo romantico come tutte le ragazze della loro età, esse rimasero estasiate dalla sconfinata placidità del mare. Non era quello, per la verità, tempo per godersi le bellezze della natura. Avevano un compito assai delicato da portare a termine: il dovere verso la loro Patria che, per quanto fosse retorica, esse, nella loro ingenuità e giovanile baldanza, pronunciavano con piacere e con un certo orgoglio perchè in quel momento si sentivano utili ed importanti. Se poi qualcuno, qualche partigiano della loro Brigata le interrogava sulla Patria, sul perchè si esponevano ai pericoli della lotta clandestina, esse non sapevano cosa rispondere. Intuivano solo, frammezzo ai confus sentimenti dell’animo, che era giusto farlo per «cambiare qualcosa», ma cosa non sapevano; e in quel momento pensavano ai giovani e agli uomini del loro paese -imbianchini, contadini, muratori- che soffrivano e morivano sulle montagne quando non finivano impiccati ai pali della luce sull’orlo delle strade; alle numerose famiglie cui era stata incendiata la casa; all’ansia delle madri e, anche, alle loro aspirazioni che avrebbero potuto divenire realtà un domani, quando quel qualcosa di cui non sapevano ancora sarebbe cambiato. A loro, in fondo, bastava questo, e anche sapere che l’umile gente del loro paese era in mezzo alla «cosa» in maniera volontaria, senza essere stata obbligata da qualche autorità. Bastava solo questo per dar loro garanzia del futuro

I limiti tra privato e pubblico si confondono, e con essi si confondano le funzioni degli oggetti e la liceità o meno dei comportamenti, anche quelli amorosi più audaci: corteggiare uno sconosciuto per carpirne l’appartenenza, se sia nemico o meno.

Illuminare episodi apparentemente minimi, lontani dall’eroismo che aveva caratterizzato molta parte del discorso intorno alla Resistenza, lungi dal banalizzare quanto accaduto, conferisce una dimensione nuova alla «grande cosa», rendendola commensurabile all’esperienza, ad esempio, di chi qui scrive. Merlin riesce in quello che era il suo proposito: offre strumenti di analisi e contribuisce a dare sensatezza ad un periodo tanto importante della propria vita, e di quella della madre, ma allo stesso tempo, per il lettore, tali strumenti sono un appiglio per una comprensione più generale, di un momento storico e di cosa volesse dire farne esperienza, viverne i giorni.

La casa sulla Marteniga è il suo ultimo libro, ma avrebbe potuto essere il primo: permane, sempre, nella sua scrittura, una lucida attenzione alla realtà, un dichiarare sempre la propria posizione, perché è dall’esperienza che si parte, da quanto si è vissuto sulla pelle e tramite la pelle si è compreso, si è fatto diventare parole. Anche nei limiti e nelle ingenuità di alcuni scritti, sempre molto solidi e certi, quasi dogmatici, a Tina Merlin va riconosciuta una solida onestà, una tenacia nel perseguire quello che si ritiene essere giusto, a cui non viene mai meno, nemmeno quando sarebbe preferibile dimenticare, patteggiare una riconciliazione, quando il tempo sembra avere restituito pari dignità ad ogni perdita, annacquando il peso delle responsabilità.

È questa la cifra dell’esperienza di questa donna, che porta avanti, nella sua esistenza di scrittrice e giornalista, due operazioni di segno apparentemente contrario, in realtà complementari: conferisce una dimensione quotidiana ai giorni della Resistenza, e pone un presidio permanente alla difesa della memoria e delle memorie, rifiutando sempre una facile acquiescenza e una riconciliazione postuma.

Come avverrà poi con il caso del Vajont, è contro la smemoratezza che la scrittura, sia quella letteraria che quella giornalistica, compie la propria battaglia: contro la dimenticanza comune, dell’opinione pubblica, e a volte quella degli stessi protagonisti e protagoniste. Si dà la voce, si danno le parole, a chi non le ha più o non ha mai avuto la capacità di utilizzarle. Proprio quando la quotidianità riprende il proprio corso, e l’onda del presente sembra cancellare il passato, la memoria recente, le ingiustizie subite, la scrittura di Merlin dalle pagine dell’«l’Unità» a quelle della sua autobiografia, ci ricorda che è nell’apparente quiete dei giorni che va ricercato il filo del racconto, il dovere di parola e di memoria, nei confronti di quanto è passato e nei confronti di quanto sarà.

Per questo vale, nel caso di Tina Merlin, che il contrario di oblio non sia memoria, ma giustizia.

Io non mi sento tanto delusa come molti miei compagni, ho già conquistato molto per me, sono uscita da un’ignoranza abissale, adesso so tante cose: perché esistono i poveri, perché sono andata a servire, perché ci sono le guerre. Mi sento ricca d’esperienza e di conoscenza. Uguale, finalmente, agli altri. Allegra di vivere. Con tante speranze per me e per mio figlio. Lo guardo giocare, spensierato, nel prato di Santa Tecla e dico fra me: ecco, tu avresti potuto essere un altro bambino, come lo furono tua madre e i tuoi zii, se non ci fosse stata la rivoluzione. O una mezza rivoluzione.

Di Chiara Sacchet

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[toggle title=”Bibliografia”]

AA. VV, Tina Merlin. Partigiana, giornalista, scrittrice, a cura di Maria Teresa Sega, Nuovadimensione, Venezia, 2004.
Bravo Anna, Bruzzone Anna Maria., In guerra senz’armi. Storie di donne. 1940 -1945, Biblioteca Universale Laterza, Roma -Bari, 1995.Lotto Adriana, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro, Cierre edizioni, Verona, 2011.Merlin, T., La casa sulla Marteniga, Cierre edizioni, Verona, 2001.

Merlin, T., La rabbia e la speranza. La montagna, l’emigrazione, il Vajont, Cierre edizioni, Verona, 2004.

Merlin, T., Menica e le altre. Racconti partigiani, Cierre edizioni, Verona, 2002.

 

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Testo tratto dal libro Questa terra è la mia terra. Storie dal Veneto, dal Salento, dall’America latina. – Editore La Toletta Edizioni – Venezia. Autori: Francesca Correr, Marco Goldin, Paolo Grassi, Stefano Pontiggia, Camillo Robertini, Chiara Sacchet e Silvia Segalla. Curatore: Camillo Robertini. Grafica e illustrazioni: Alessandro Squatrito


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